Da qualche giorno sono tornata a frequantare la biblioteca comunale della città dove vivo. Ho varcato la soglia della vecchia scuola elementare restaurata e trasformata in biblioteca, con aria spaurita, intimidita, quasi timorosa, proprio come vent’anni fa da studentessa. Come allora sto ancora cercando. Non si finisce mai, non si arriva mai. Quando ti sembra di aver capito qualche cosa ti accorgi con sorpresa che dopo tanta strada sei ritornato dove eri partito, solo un pò più in alto oppure un pò più in basso.
Sono circondata da ragazzi, studenti, giovani, giovanissimi. Studiano, leggono, scrivono, seriamente, intensamente. Il silenzio ci avvolge, siamo tutti qui per una sola ed unica ragione: conoscere se stessi, gli altri, un concetto, un problema, una materia, un fatto, un luogo. Siamo diversi, abbiamo diverse motivazioni ma un unico grande obiettivo: conoscere, per riuscire a vivere.
“Se fossi…”, quante volte ci abbiamo giocato da bambini e quante volte l’abbiamo pensato e detto da grandi. Se fossi un colore, se fossi un eroe, se fossi un animale, se fossi un luogo; se fossi in lui, se fossi in lei, se fossi un libro, se fossi il Presidente della Francia…il gioco diventa uno specchio che ci aiuta a capire chi siamo, dove stiamo andando, cosa stiamo diventando e per i nostri sogni non ancora realizzati è come l’esca per i pesci di un torrente di montagna…
Se fossi una scrittrice vorrei essere Jhumpa Lahiri. E di conseguenza poter scrivere almeno uno dei suoi quattro fortunati e bellissimi romanzi. Nata in Inghilterra l’11 luglio del 1967 da genitori indiani originari del Bengala, ha trascorso la sua infanzia e parte della sua vita negli Stati Uniti, tra Boston e New York. Per più di una ragione sento un legame particolare nei suoi confronti, come lei ha un legame particolare con la mia, la nostra lingua: l’italiano. Ho letto il suo primo libro,” L’interprete dei malanni”, nel 2000, nell’anno in cui ha vinto a sorpresa il premio Pulizer. E’ un libro delicato, una raccolta di racconti brevi ambientati prevalentemente in Massachusetts che narrano storie di immigrati indiani. La sua scrittura poetica e sottile sonda la vita e le emozioni di chi, come lei, è un pò indiano (nell’aspetto e nelle tradizioni familiari) e un pò americano (per cultura e lingua). O di chi, come i suoi genitori, è indiano ma vive in un altro continente, parla un’altra lingua, respira, nolente o dolente, un’altra cultura. Racconta insomma il vivere quotidiano di persone che non sono completamente nè una cosa né l’altra o sono tutte e due. E’ un conflitto irrisolto, irrisolvibile che inevitabilmente genera complicazioni ma che in fondo è la vita stessa.
Ci sono libri che sembrano film e scorrono veloci come le immagini sullo schermo. Altri invece somigliano a quadri dipinti a mano da pittori che mischiano colori tra loro raccogliendoli dalla tavolozza per posarli sulla tela con mano ferma, sicura, vibrante. Sono libri più materici e corposi. Una cosa non è meglio dell’altra. Non c’è un migliore o un peggiore. Sono solo diversi…
Sto leggendo proprio in questi giorni il suo ultimo libro, “In altre parole”, scritto interamente e direttamente in italiano. Jhumpa Lahiri in questo ultimo, intenso e sofferto lavoro, in quanto autobiografico, racconta il suo rapporto con le tre lingue della sua vita: l’inglese, il bengalese e l’italiano. Un tringolo che definisce i contorni della sua identità frammentata, disgregata, incompleta, incompiuta. Il libro si chiude con un breve racconto di un uomo che torna a casa dopo due mesi di trasferta per lavoro. Questa conclusione sembra suggerire che è proprio la scrittura che la aiuta a ricomporsi, a ritrovarsi, a riconoscersi. “Scrivo per rompere il muro, per esprimermi in modo puro. Vengo ascoltata senza essere vista, senza pregiudizi, senza filtro. Sono invisibile. Divento le mie parole e le mie parole diventano me.”
Come a dire……. per me non esiste altro!
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