Il mondo secondo me

Esistono colori che si possono vedere solo con il cuore e ci sono rumori che è impossibile sentire solamente con le orecchie. Avere una malattia genetica degenerativa  di tipo sensoriale significa avere un limite fisico oggettivo. E’ quello che in gergo tecnico si definisce un handicap.

Ma in che cosa consiste esattamente?

Nel mio caso si tratta di una sindrome chiamata USHER che colpisce l’apparato uditivo e quello legato alla vista. In altre parole sono sorda fin dalla nascita e ipovedente dall’età di 19 anni (restringimento del campo visivo e cecità notturna). Eppure eccomi qui.

In una società in cui non esistono più confini: geografici, morali, mentali; dove tutto è acquistabile e raggiungibile, alla portata di tutti, la malattia è considerata da tutti la peggior esperienza che una persona possa incontrare nella propria vita. Io invece sono giunta alla conclusione che sia una grande opportunità. La malattia rappresenta una possibilità per divenire consapevoli di se stessi e la reale importanza di tutte le cose che ci circondano. Dobbiamo solo avere la forza di accoglierla come tale. E crederci.

Il rovescio della medaglia, insomma, il rischio è cadere nell”egocentrismo. Ogni malato “vede e sente” (ironia della sorte) soltanto se stesso. La sua realtà è la realtà. Per questa ragione dovremmo, tutti noi, uscire dal nostro problema, abbandonare il nostro ego ed entrare nel mondo.

Io mi ritengo una persona molto fortunata. Nonostante tutto. O proprio in virtù di questo tutto che mi rende unica.

L’amore

Devo ammettere però che non è sempre stato così: ho passato anni a inseguire delle emozioni senza penetrarle e viverle. La malattia, scoperta alla soglia dell’età adulta,  mi ha permesso, in quanto espediente e scusante, di erigere un muro tra me e l’altro sesso. Ammetto. Avevo paura. Paura di amare, di essere amata, di abbandonarmi ad un altro che può tradire, ferire, come in qualche modo ha fatto il mio corpo, il mio destino. Avevo paura di essere rifiutata perchè, in fondo, io stessa per prima mi rifiutavo.

Così per molto tempo ho escluso l’amore dalla mia vita. Era più facile vivere lamentandomi di essere incompresa, soffrendo, crogiolandomi nelle mie disgrazie, scusandomi di cose di cui non ho colpa, schiava delle mie insicurezze. Era più facile appiccicarmi addosso un handicap e usarlo come scusa per non vivere.

Non accettavo l’amore dell’altro perché non amavo me stessa. Tutto il mio essere in quanto tale. L’amore invece è energia pura che non risponde a nessuna legge fisica o razionale. Non resta che imparare ad accettarlo e ad esso abbandonarsi..

Oggi ho scoperto, grazie ad Alessandro, con cui da otto anni condivido tutta la mia vita, che il “problema” era solo mio e che, anche questo mio atteggiamento era una forma di egocentrismo. Non possiamo vivere in eterna attesa perché è già questo il migliore dei mondi possibili e siamo solo noi, con tutto il nostro essere, che lo alimentiamo.

La solitudine

Milano. Notte. Fine luglio. Valentina, un’amica, mi confessa la sua incapacità di vivere la solitudine. Sempre fidanzata, sempre in compagnia, incapace di rimanere sola con se stessa per più di qualche ora. Prigioniera di un agire che si rivela in realtà una vera e propria fuga per evitare di pensare.

In quel momento mi sono sentita di raccontarle una delle mie più grandi fortune: la sordità. La possibilità che io ho, più di altri, di isolarmi fisicamente, in modo reale e totale, mi ha permesso di entrare in me stessa e di conoscermi. Anche io, come tutti, ho avuto paura degli abissi della mia anima. Perchè sono come paesaggi bellissimi che stordiscono, perchè abbagliano come i riflessi dei raggi di sole in piena estate. Diceva Kahlil Gibran (Aforismi. Sabbia e Schiuma. Mondadori, 1999): “Sono un viaggiatore e un navigatore e ogni giorno scopro qualche nuova regione dentro la mia anima”. E in questo compito la solitudine e il silenzio sono ottimi compagni: capaci di creare atmosfere e luoghi per ascoltarsi.

E’ vero che noi umani siamo esseri sociali e che le relazioni sono fondamentali per la nostra sopravvivenza ma la maggior parte di noi occidentali vive i rapporti umani come una droga. La nostra “importanza” nella società è proporzionale alle telefonate, e-mails e sms che riceviamo. Nessuno considera la qualità e profondità dei rapporti perchè non è la natura del rapporto che conta ma la relazione in sè. Svuotata di significato, senza valore alcuno se non il divertirsi. Nessuno più si incontra. E questo porta all’incapacità di crescere e di diventare adulti. Viviamo nella società degli eterni Peter Pan.

La solitudine fa paura, come il dolore e la morte.

I popoli antichi dicevano che un vero “maestro” si riconosce da come muore. Solo in quel momento vengono infatti messi in pratica tutti gli insegnamenti. Si nasce e si muore soli. Questa è una delle grandi verità che caratterizza la nostra esistenza di esseri umani. Ci vuole coraggio per vivere. E sudore e fatica per vivere al meglio. Poi dobbiamo morire ed è un’evento democratico: la morte, la grande livella, come diceva Totò. Pensare spesso alla morte permette di vivere con integrità e al meglio: la vita acquista pieno significato. E’ quello che fa un guerriero, un uomo che sceglie la propria vita e come morire. Il valore di un uomo si evince dall’energia che impiega nel realizzare il proprio destino. Quando, in solitudine, sentiamo di riuscire a rimanere noi stessi; in quel momento troviamo la forza di andare per il mondo e sorridere.

 

La famiglia

Sono nata unica da una coppia d’amore. I miei genitori, Giorgio e Giovanna, hanno affrontato grazie a me ed a tutti i miei “problemi” il loro destino. La malattia, specialmente se è di natura genetica, scatena l’infinito vortice del senso di colpa: nei genitori, per non aver saputo donare ai propri figli il bene più prezioso: la salute; nel figlio malato, per non essere perfetto.

Soltanto grazie ad un cambiamento di prospettiva possiamo andare oltre  questa sensazione di impotenza : se si ribalta il concetto di malattia arrivando a intenderlo come destino, possibilità ed unicità, scompare il peso del senso di colpa.

Noi siamo pieni di bellezza, in quanto legati al vero, unici, autentici. Bisogna riconoscere che spesso chi ci sta attorno soffre enormemente più di noi. I miei genitori non comprendono la pienezza della mia vita e vivono la mia malattia come una mancanza che loro stessi hanno causato.

C’è un film bellissimo che si chiude in modo sublime:

Un padre chiede alla propria figlia se è felice. “Si”, risponde lei.

“E allora è giunto il momento di essere generosi”.

Ecco, noi “malati” dobbiamo imparare ad essere generosi.

La libertà

Lungo quasi tutto il corso della mia vita, a momenti alterni, ho desiderato follemente di essere da qualche altra parte, con qualcun altro a fare qualcosa d’altro. Ero fermamente convinta che lasciando questa piccola città di provincia avrei avuto l’occasione e i mezzi per trovare me stessa e il mio posto nel mondo. Credevo davvero, sinceramente, con tutte le mie forze che in quell’altro posto sarei stata finalmente felice. Percepivo il mio io in uno spazio sempre sbagliato e vedevo la mia strada in un “altrove” non bene definito.

Poi ho preso coscienza e, con consapevolezza, ho compreso che la vera domanda da porsi è: “Cosa voglio essere?”.

La mia, la nostra realizzazione è “qui ed ora”:  è tutto ciò che ci permette di apprezzare e godere di questo momento. Tutta la mia vita e il mio essere si realizzano ed esprimono qui ed ora: esiste solo questo attimo che tutto racchiude e in cui tutto si compie.

Quando ci sentiamo depressi, sconfitti e svuotati, c’è una cosa che possiamo fare: fermarci e respirare profondamente, lentamente, cercando di entrare nel nostro respiro, nel nostro dolore, in noi stessi. A quel punto siamo pronti per abbandonare il nostro io ed entrare nel mondo. La vita ci sta aspettando.

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