“Una città aperta a tutti è quella che sa riflettere l’anima di chi la vive, dove ogni individuo trova il suo posto e ogni differenza diventa parte del suo splendore.”
— Renzo Piano
Due. Due è il numero perfetto, è il numero a cui penso quando si parla di disabilità. Due sono le gambe su cui camminiamo, due sono le braccia con cui pratichiamo le principali funzioni quotidiane, due sono gli occhi che ci permettono di vedere, due sono le orecchie con cui ascoltiamo. Ma veramente abbiamo bisogno di avere tutto “doppio”? Se penso alle personali esperienze che mi hanno toccata da vicino direi di no. A volte l’uso limitato di un organo viene compensato con l’uso di un altro, spesso per “sentire” o “vedere” viene attivata la nostra sensibilità che ci permette di percepire addirittura meglio, di vivere emozioni e situazioni che le persone normo dotate a volte non colgono.
Purtroppo, però, non è sempre così. Me ne sono resa conto durante gli ultimi due anni di vita dei miei genitori, costretti su una sedia a rotelle entrambi e portatori di invalidità permanenti che hanno limitato, non tanto le loro attività quotidiane all’interno delle mura domestiche, quanto quelle all’esterno.
Sono architetto e mi occupo di progettazione da quasi trent’anni. All’università studi le città ideali, pensando che il concetto di “ideale” sia legato a una pura funzione estetica della città: una “bella città” è una città che funziona, è “ideale” per la vita dell’uomo. Un centro urbano con palazzi ordinati, puliti, esteticamente gradevoli, con servizi eleganti e strade ampie ci aiuta a vivere meglio. Non basta.
Milano, la città in cui sono nata e vivo da sempre, la città che corre, che brilla di luci e di vetrine, non sempre sa fermarsi a guardare chi cammina a passo diverso, chi percorre le sue strade con un ritmo dettato non dal cuore, ma dalle ruote di una sedia, dal silenzio di un mondo senza suoni o dalla vista di un orizzonte sfocato. Milano, con i suoi tram antichi che si arrampicano sulle rotaie, non sempre si ricorda di chi non può salire con un semplice gesto. Le sue strade, così affollate di vita, talvolta dimenticano che non tutti possono attraversarle con la stessa facilità.
Milano, città dell’innovazione e del progresso, ospita grattacieli che sfiorano il cielo, ma spesso lascia chi è a terra a guardare senza poter entrare. I suoi marciapiedi, a volte troppo stretti, troppo alti, si fanno muraglia per chi vive la città ad altezza diversa. E i suoi edifici, eretti con slancio verso il futuro, non sempre offrono a tutti la chiave d’accesso per varcare la soglia.
Da architetto non posso che compiacermi di come si sia sviluppata l’architettura urbana della mia città, ma da cittadina, da figlia di persone disabili, invece la situazione cambia.
Avete mai provato a uscire di casa e muovervi all’interno della città con un ausilio che vi sia di aiuto per il vostro spostamento? E non sto parlando di una carrozzina, ma di un semplice deambulatore, di un paio di stampelle o di un banalissimo bastone. Vi siete mai resi conto di come può attraversare la strada una persona che non sia normodotata, in totale autonomia? Ecco, provate a pensarci. Vi renderete subito conto che il minimo ostacolo (un gradino, una rampa troppo pendente, una pavimentazione sdrucciolevole quando piove, un’area di sosta senza una pensilina, una porta troppo stretta, un semaforo senza segnale sonoro e… potrei andare avanti all’infinito) per una persona che non è totalmente autosufficiente, si trasforma in un impedimento insormontabile.
Milano è anche la città dei sogni, dove tutto sembra possibile. Eppure, il sogno di una città accessibile, a misura di ogni abitante, sembra ancora lontano, come una promessa sussurrata tra il frastuono del traffico e il rumore dei passi frettolosi. Milano non è crudele, ma a volte distratta, troppo presa dai suoi impegni, dai suoi eventi, dai suoi mille volti che si alternano tra il giorno e la notte.
Milano, con il suo cuore generoso, potrebbe essere il porto sicuro per chi cerca non solo accoglienza, ma anche dignità e rispetto. Eppure, camminando per le sue vie, si scopre che quel porto ha ancora troppe barriere, troppe scale senza ascensore, troppe porte che non si aprono a tutti.
Allora, senza utilizzare troppa retorica e senza volere insegnare nulla ai colleghi, perché so quanto sia difficile, complicata e ricca di insidie anche la nostra professione, mi viene da pensare questo. Non solo quando progettiamo le città, cerchiamo di porre attenzione a tutti i dettagli che possano migliorarne l’uso da parte di tutti, ma anche noi cittadini, nel nostro piccolo, cerchiamo di vivere in maniera “gentile”. Con gentile, mi rifaccio a quello che dicevano i latini, ovvero di appartenenza alla “gens”, a una comunità. Il nostro vivere nel nucleo urbano dovrebbe tenere conto anche degli altri e quindi non solo progettare in maniera sostenibile e confortevole per tutti, ma aiutare con piccoli gesti anche chi è in difficoltà nei semplici movimenti quotidiani. A volte basta poco: tenere aperta una porta, cedere il passo, offrire un sostegno, dare un’indicazione, sono tutti piccoli gesti che trasformano una città nell’immagine “ideale” che tutti abbiamo in mente.
Io sono fiduciosa, penso che ci sia speranza, credo nel cambiamento indotto soprattutto dalle nuove generazioni, perché Milano è anche una città che sa ascoltare, che sa cambiare. E forse un giorno, non troppo lontano, sarà una città dove ogni passo, ogni ruota, ogni sguardo troverà il suo spazio. Una Milano che non corre più così veloce da dimenticarsi di chi la segue, ma che cammina al fianco di tutti, al ritmo della vita, di tutte le vite, nessuna esclusa.
Rachele Fay
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