Ricorderò per sempre il sapore di quella mousse mangiata nei primi minuti di ricovero in ospedale. Aveva un sapore buonissimo, aveva il sapore della vita. Erano passati pochi giorni dall’inizio dell’anno: un anno che mi aspettavo luminoso, pieno di nuovi progetti e propositi, di desideri, di speranza e di voglia di visitare nuovi posti. Era una splendida giornata di sole. L’inverno era arrivato all’improvviso ma si faceva sentire, eppure il sole riusciva a scaldare un po’ l’aria e la pelle. Ero uscita di casa poco dopo le quattordici, ancora non sapevo che ci sarei rientrata solo sei giorni dopo. In mezzo c’è stato un volo di tredici gradini, due polsi fratturati, cinque punti sul mento, un’operazione per sistemare entrambi i polsi e tre cicatrici per un totale di quarantadue punti. Da aggiungere al conto ci sono anche quelle sei notti in ospedale in un letto che non era il mio, con persone che non avevo mai incontrato prima.
Ritorno spesso con la mente e gli occhi a quel momento in cui sono caduta. Non ho consapevolezza di come sia successo: stavo camminando ed ero perfettamente a conoscenza del fatto che lì si trovasse una scala che porta al parcheggio sotterraneo. Era una scala che non avevo mai percorso prima di quel momento. Forse in quel punto il sole lasciava spazio ad un’ombra improvvisa, prepotente, tagliente o forse è stato anche il cambiamento del paesaggio urbano. Da pochi giorni infatti si erano conclusi i lavori che da anni imperversavano in quella piazza, cambiando così i miei punti di riferimento, la mia percezione dello spazio. Purtroppo, però, la realtà è che quella scala non è a norma, tanto è vero che non segue le indicazioni definite dal decreto n. 236 del (lontano) 1989. Come per la maggior parte delle scale in Italia manca completamente il contrasto tra il pavimento e l’inizio della scala, ossia ciò che permette a tutti, non solo a noi ipovedenti, di riconoscere l’inizio di un ostacolo mortale quale può essere una scala. In un mondo giusto e attento alle necessità di tutti, le scale dovrebbero anche avere il percorso tattile su ogni singolo gradino.
Il passo successivo è stato nel vuoto, nessun pavimento a sostenermi. Chiunque abbia mai provato questa sensazione di vuoto vivrà questo mio momento come suo. Dopo poco mi sono ritrovata a faccia in giù, sul freddo e duro pianerottolo. Il sangue scorreva e il braccio sotto il corpo era sicuramente fratturato; la mia mente era lucida, in grado di sentire che tutto il resto del corpo era perfettamente integro. Non avevo alcun dolore alle gambe né al tronco. Ho sentito una voce che mi chiedeva come stavo e se potevo sentirla: da quel momento sono iniziati i miei soccorsi. Molte persone sono arrivate dopo quella prima donna che ho scoperto chiamarsi Elisea. Quando è arrivata l’ambulanza mi sono sentita al sicuro, sapevo che da quel momento in poi c’era qualcuno che poteva con professionalità occuparsi di me e dei miei dolori. I miei angeli si chiamano Andrea e Mirko. Due ragazzi giovani, gentili, ancora sento ciò che mi hanno detto, ciò che mi hanno trasmesso. Diamo tutto per scontato, la vita stessa ci sembra un nostro diritto scritto in modo indelebile in quel romanzo chiamato destino. Ho moltissimi ricordi speciali: la leggerezza delle battute tra me e i miei “angeli”; l’autenticità dei discorsi avuti in quei giorni con Antonio e Milvia, i miei due compagni della mitica stanza 29. Forse proprio in questi momenti esce la parte migliore di noi. Quando tutto il resto viene messo in silenzio, quando cadono tutte le nostre certezze, allora siamo come nudi: corpo dolorante e anima.
Non posso e non voglio negare che ci sono stati momenti molto difficili. Oltre al dolore fisico c’è stato un grande dolore psicologico, dato soprattutto dalla lontananza forzata dalla mia famiglia. Posso però anche raccontare della grande ironia e leggerezza con cui affrontavamo certe situazioni, certi impedimenti, certi momenti in cui per non piangere ti viene da ridere. Quando sono tornata a casa dopo un primo momento di felicità sono arrivati giorni difficili. Una convalescenza lunghissima, senza poter usare le mie mani che da qualche anno sono i miei secondi occhi: mi aiutano ad orientarmi nello spazio, mi permettono di riconoscere le cose, insomma, mi aiutano a sentire e capire. Adesso che piano piano ricomincio ad utilizzarle riconosco la potenza della loro forza. Non stringerò mai più una mano senza pensare a tutto questo.
Photo courtesy by Elidea
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