Racconti di vita

Quello che i medici non sanno

5 Maggio 2015

Non credo vi sia mai capitato di partecipare ad un convegno medico aperto al pubblico. Io ho spesso frequentato incontri dedicati alla mia malattia. Ad uno di essi,  il presidente dell’associazione  Retina Svizzera, all’apertura dei lavori disse “non mi risulta che ad un convegno di cardiologia o di pneumologia, siano presenti così tanti malati”. Gli ipovedenti sono, per loro natura, più sensibili, curiosi ed informati. Per questa ragione partecipano numerosi a questi seminari: vogliono conoscere le ultime novità in fatto di scoperte scientifiche e di cure. Si tratta di un’esperienza particolare: si discute di qualche cosa che il malato conosce molto bene e con cui convive quotidianamente. E’ insomma il caso clinico che viene analizzato. Per questa ragione a volte si sorride e si ride, a volte si piange…

Ho ovviamente incontrato molti dottori nella mia vita. Alcuni li porto nel cuore, in quanto grazie alla loro sensibilità e capacità, sono riusciti ad andare oltre la mia malattia e hanno saputo guardare alla mia persona nella sua interezza. Un luminare come il Dott. Berson, responsabile del Eyes and Hear infirmary della Harvad Massachusetts University di Boston, durante il nostro ultimo incontro nell’agosto del 2008, dopo aver analizzato e spiegato la condizione ed evoluzione della mia retina ha mostrato altrettanto interesse nei confronti della mia nuova vita con Alessandro e ci ha fatto molti auguri per il nostro futuro.

Mi sono recentemente iscritta al data base mondiale MY RETINAL TRACKER dove si raccolgono informazioni tecniche circa i malati di retina. Mi ha molto sorpreso constatare che a fianco di domande relative alla condizione clinica e genetica ce n’erano molte relative all’aspetto psicologico. Per esempio si chiedeva quanto frustrante sia la condizione di ipovedente in alcune situazioni quotidiane e in che modo si riescono a svolgere certe azioni, come guidare o lavorare:  come si affronta la malattia influenza il vissuto e in un certo senso la malattia stessa. O meglio, influenza la persona che quella malattia porta per il mondo.

Questo e altro è quello che i medici, soprattutto italiani, non sanno…

Non sanno che il disabile è in questo caso anche un malato (e non è sempre così!) e ha bisogno di essere messo in condizioni di autonomia che va di pari passo con l’autostima. Nel caso di un’ipovedente non grave si tratta di semplici accorgimenti: un’adeguata illuminazione, gradini e ostacoli segnalati opportunamente con adesivi fluorescenti. E’ doloroso attaccarsi al braccio di chi ti accompagna solo perché qualcuno, che più di altri avrebbe dovuto,  non ha pensato a te. E’ inaccettabile, sembra un’ovvietà ma credetemi che non è scontato.

Non sanno inoltre che, per dirla alla McLuhan, il medium è il messaggio cioè come si trasmette una cosa diventa parte del messaggio stesso. Certe informazioni circa la salute del proprio paziente dovrebbero essere comunicate “senza (mai) perdere la tenerezza”.

Non sanno che noi non siamo la nostra malattia. Ha detto Emma Bonino: “Dobbiamo sforzarci di essere sempre persone, di voler vivere liberi sino alla fine. Insomma, io non sono il mio tumore, voi neppure siete la vostra malattia. Dobbiamo pensare che siamo persone che affrontano una sfida (…)”. Che anche chi ci sta intorno se lo ricordi, è importante. E’ questione di rispetto e sensibilità…

Foto di Massimo Pontiggia

 

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