Oggi lascio spazio alle parole di una donna che vorrei/potrei essere io tra vent’anni. Si chiama Anita Rothenbuhler. Siamo entrambe donne e mamme di due figlie, abbiamo la stessa malattia, proveniamo da paesi di cultura latina. La sua vita raccontata in questa lettera è una bellissima testimonianza.
Cari presenti, vorrei cominciare con qualche indicazione
sulla mia persona. Sono nata il 13
aprile 1946 a Osorno (Cile) e dal 1965 vivo in
Svizzera. Sono sposata e mamma di due figlie
adulte. Ho imparato la professione di laboratorista
chimica. Attualmente sono membro di comitato
e mi occupo di lavori di progetto in organiz-
zazioni d’aiuto reciproco, dirigo dei gruppi di
scultura dove si lavora la pietra ollare e l’alabastro
e faccio la pittrice.
Vengo ora al mio esposto, in cui vorrei tracciarvi
un ritratto un po’ particolare, non il mio, ma quello
della sindrome di Usher di tipo II. La carriera
della sindrome di Usher ebbe un inizio promettente.
Il suo primo grande successo la sindrome
di Usher lo registrò quando avvo circa venticinque
anni, al momento in cui il medico mi diagnosticò
un’affezione visiva: avevo una retinite pigmentosa
e la notizia costituì un colpo durissimo.
Il pensiero che con il passare del tempo la RP
avrebbe assunto dimensioni sempre più vaste fece
nascere in me un grande senso di smarrimento
e impotenza. Ero disperata e mi sentivo totalmente
alla mercé della situazione venutasi a
creare. Senza dimenticare che le opportunità di
una cura farmacologica o di altre terapie erano
lontane mille miglia per non parlare poi delle
eventualità di un intervento chirurgico. La notizia
significava che prima o poi avrei dovuto buttare
alle ortiche il mestiere di laboratorista chimica
che avevo appena imparato. A questo s’aggiunse
la paura riguardo al non sapere come il
mio ambiente avrebbe reagito all’handicap visivo
con un decorso a «fasi successive di peggioramento».
Anche il fatto che la RP fosse una malat-
tia ereditaria mi metteva paura. Mi si poneva inoltre
l’interrogativo a sapere se fosse responsabile
metter su famiglia. E con la sindrome di
Usher come me la sarei cavata con gli impegnativi
compiti di casalinga e mamma? Dopo il colloquio
con l’oculista, mio marito e io decidemmo
per prima cosa di fare chiarezza sulla pianificazione
familiare. Le risposte del medico non ci
portarono granché perché ci aveva detto che
potevamo avere 10 bambini senza che nessuno
di loro avesse una sindrome di Usher oppure che
avremmo potuto avere anche un unico figlio, ma
affetto dalla malattia. Nonostante tutto decidemmo
di dare seguito al nostro desiderio di diventare
genitori. La fortuna ci baciò, la malattia ereditaria
ha risparmiato le nostre due figlie.
Tra i trenta e i quarant’anni dovetti rinunciare
definitivamente al desiderio di riprendere la vita
professionale. La RP procedeva «a scatti», come
da copione. Per contro, con l’apertura a Lucerna
dell’atelier per ciechi e deboli di vista, un luogo
dove potei dare libero sfogo alla mia creatività,
mi si presentò una bella opportunità.
A circa quarant’anni, coronando la sua carriera, la
sindrome di Usher mi fece dono degli apparecchi
acustici. Poco più tardi fece irruzione nella mia vita
un altro oggetto nuovo, il bastone bianco lungo.
E con esso naturalmente le corrispondenti lezioni
di orientamento e mobilità. La sindrome di
Usher si era manifestata in tutta la sua violenza e
mentre essa toccava l’apice io cascavo così in basso
come mai prima nella vita. Ero assolutamente
conscia di tutta la crudezza della situazione e di
tutte le sue ripercussioni. E intanto riaffiorava il
ricordo di ciò che avevo vissuto nell’infanzia e
nell’adolescenza:
…che stress, che senso di costrizione, quante
incertezze e malintesi caratterizzavano allora la
mia vita. Essa era, insomma, un’unica eterna
contraddizione.
…tutto questo mi tornava alla memoria mentre
ripensavo agli anni della scuola dell’obbligo. A
dir la verità nessuna delle mie attività scolastiche
successive aveva lasciato in me ferite così profonde,
un così vasto sentimento di incapacità e
sconfitta.
…ora però riuscivo a vedere i legami tra queste
diverse esperienze. Molto prima di conoscere la
diagnosi di RP la debolezza d’udito congenita mi
aveva reso difficile la vita. Le contraddizioni, che
come un interminabile filo rosso avevano costellato
la mia vita, cominciavano a trasformarsi in
riconoscimenti. Dunque la colpa di tutto ciò non
era solo mia.
Sì, la sindrome di Usher aveva veramente avuto
successo su tutta la linea!
Avevo toccato il fondo, quindi potevo solo ancora
risalire la china. Per prima cosa imposi alla sindrome
di Usher dei chiari limiti. Tutto quello che
si vuole, ma fino a qui e non un millimetro più in
là. E poi ci accorderemo come si deve, tu e io. Voglio
poterne vedere il senso e trarne utilità. E anche
vivere voglio, ma non solo per te. D’ora in
poi la musica doveva cambiare, non la sindrome
di Usher doveva averla vinta, io dovevo uscirne
vincitrice! Decisi di applicarmi in campo artistico
e di imparare le cose a fondo. A tal scopo, all’inizio
degli anni 90 frequentai per due anni i corsi
semestrali serali di «conoscenze basilari di disegno»
presso la scuola d’arte applicata di Lucerna.
Continuai la formazione in un gruppo spontaneo
che si voleva perfezionare nella libera espressione
artistica. Fu un processo di sviluppo molto
duro, fu però anche l’inizio di una nuova fase di
autonomia. Ciò che durante le lezioni non riuscivo
a realizzare sulla tela cercavo di farlo nascere
dall’argilla, dal legno, dalla pietra ollare e
dall’alabastro. Frequentai in parallelo parecchi
corsi intensivi dedicati alla «piccola scultura di
alabastro» presso la scuola svizzera di artigianato
artistico. Cominciai a individuare degli obiettivi
in questo ambito e a sviluppare delle visioni.
Motivante era anche l’attività di altre persone
con handicap visivo che lavoravano la pietra o
dipingevano.
A quei tempi speravo sempre ancora che in oftalmologia
si sarebbe verificato qualcosa come un
piccolo grande miracolo, per esempio un farmaco
capace di frenare la RP che continuava imperterrita
ad avanzare. Persino quando il mio residuo
visivo era ormai decisamente ridotto feci grande
fatica a dare il mio accordo per l’intervento di cataratta.
Per finire decisi di correre il rischio. L’operazione
riuscì bene in entrambi gli occhi. Era il
1997 e ci guadagnai molto in termini di nuove
attività. Non avevo contato di poterci vedere di
nuovo e la vista «ritrovata» mi ricompensò di tutte
le preoccupazioni che fino allora la RP mi aveva
procurato.
In ambito creativo ottenni la possibilità di trasmettere
le mie conoscenze in fatto di pittura e
di lavorazione della pietra ad altri, insegnavo infatti
nell’atelier del tempo libero per ciechi e ipovedenti
di Lucerna. Nel frattempo da quest’attività
sono scaturite alcune interessanti esposizioni.
In pari tempo cominciai anche a impegnarmi a
favore delle persone sordo-cieche e deboli di vista
e d’udito. Ero infatti una delle co-fondatrici
dell’associazione svizzera delle persone con handicap
visivo e uditivo, nata il 7 dicembre 1998. Il
fatto di cominciare a considerare in modo più differenziato
l’handicap dell’udito e della vista mi
permise di intravvedere nuove prospettive anche
per noi, persone con questi problemi. Sul piano
internazionale, in particolare nei paesi nordici, gli
specialisti da tempo sostengono e promuovono il
bisogno d’autonomia delle persone sordo-cieche.
In Svizzera era perciò ora di riposizionarci onde
evitare di «restare fuori campo». Una volta organizzati,
la nostra voce di persone sordo-cieche
non sarebbe più passata inosservata e avremmo
avuto a disposizione una piattaforma per formulare
le nostre richieste e di realizzarle nel limite
del possibile autonomamente o in rete con terzi.
Uno dei nostri obiettivi principali è l’assetto e la
strutturazione di tutte le forme di comunicazione
e di comprensione reciproca. Sulla scorta delle
esperienze fatte con la RP ero sempre pienamente
cosciente di cosa potesse significare, nel peggiore
dei casi, la perdita del mio residuo visivo.
Altrettanto vale per quanto riguarda il mio handicap
uditivo. Al più tardi di notte, quando devo
togliere gli apparecchi acustici, mi rendo conto di
quanto avrei da perdere anche a livello di udito.
Certo non a causa della sindrome di Usher perché
questa, perlomeno da un punto di vista medico,
mi aveva promesso un udito stabile.
Accettare il rischio e lasciare libero corso al destino
non era cosa per me. L’incertezza scatenò in
me inquietudini e paure. Nel gruppo d’aiuto reciproco
intravvidi una buona occasione per trattare
da vicino il tema della «comunicazione». In
un apposito gruppo di lavoro nacque innanzitutto
l’esigenza di tracciare un quadro generale di
ogni possibile situazione di comunicazione come
si presenta per noi persone con handicap uditivo
e visivo. Partendo da questa panoramica ci chinammo
sugli alfabeti tattili, concentrandoci sulla
tecnica Lorm. Per prima cosa il gruppo di lavoro
si accorse che il guanto Lorm abbisognava di
qualche adattamento. In collaborazione con
l’UCBC realizzammo così la nuova formula del
guanto Lorm. Intanto giunse anche il momento
di affrontare direttamente il nostro obiettivo elaborando
il concetto per la prima formazione ufficiale
di insegnante di Lorm. Nel settembre del
2003 furono licenziati il concetto e il budget. Nel
maggio del 2004 a Lucerna, nei locali del servizio
di consulenza UCBC per sordo-ciechi e deboli
d’udito e di vista, si svolsero i primi due giorni di
formazione su un totale di 8 giornate di seminari.
Si cominciò con un’introduzione ai metodi e
alla didattica dell’insegnamento del Lorm. Fu una
magnifica prestazione dei responsabili del corso,
ma anche dei partecipanti e degli assistenti.
Io ho accettato la sfida e tratto il meglio dalla
mia situazione. Mi ero fissata degli obiettivi, li
avevo perseguiti con tenacia e gli anni sono passati
in un baleno. Col tempo arrivai a capire che
nell’incontro con altre persone il mio handicap
uditivo e visivo trasmetteva anche dei messaggi
«silenti». Recentemente ho chiesto alle mie figlie
adulte se la mia sindrome di Usher fosse stata
loro di peso. La maggiore disse di non conoscere
barriera alcuna nei confronti delle persone con
handicap. Notava che a confronto con altra gente
era libera da pregiudizi, sapeva rivolgersi senza
problemi alle persone con handicap ed era lieta
di questa sua capacità. Questa positiva risposta
mi diede sollievo perché da bambina mia figlia
era apertamente molto preoccupata della mia
sindrome di Usher. Alle sue ripetute domande se
per caso avrebbe ereditato la sindrome di Usher
non potevo dare una risposta definitiva. Alla
bambina non era sfuggita la mia difficile situazione,
tant’è che a sette anni mi comunicò che lei
quella malattia ereditaria non la voleva «prendere».
Io presi molto sul serio le sue affermazioni
e le confermai che la sindrome di Usher non era
affatto facile da gestire, ma «siccome si è al mondo
vale assolutamente la pena di conviverci».
Poche settimane più tardi mi disse che semmai
avesse contratto la sindrome di Usher non sarebbe
poi stato terribile. Da quel momento si sentì
«a posto» nei confronti della mia malattia. Tutto
diverso fu l’atteggiamento della figlia minore.
Cresceva senza pensarci e come la sorella maggiore
nei miei confronti si atteneva semplicemente
alle regole del gioco usuali. Di tanto in tanto
mi faceva uno scherzo e io sapevo che questo fa
parte del bagaglio d’esperienze di ogni bambino.
Una delle sue marachelle predilette era di intingere
nel mio caffè i bastoncini di cioccolato al
kirsch, pur sapendo che il caffè non si toccava.
Naturalmente io m’accorgevo delle sue azioni
segrete perché sul fondo della tazzina ne rimanevano
le tracce… Più interessante fu il suo tardivo
riconoscimento. Quando fui ospite per la prima
volta nel suo appartamento mi sentivo molto
spersa e insicura e abbisognavo del suo aiuto. Lei
notò l’immensa discrepanza tra il mio comportamento
a casa, in un ambiente che mi era familiare,
e il mio modo di fare in un luogo sconosciuto.
Vide che l’handicap era molto più limitante di
quanto fino allora aveva ritenuto. Anche lei aveva
imparato e apprezzato molte cose, soprattutto
di sapersi rivolgere senza pregiudizi alle
persone con handicap.
Per me e per mio marito, all’inizio la sindrome di
Usher creò grossi problemi. Il sentirmi parlare di
come mi sentivo oltrepassava le sue capacità di
persona sensibile e per questo mi toccava essere
forte, non potevo lasciarmi andare.
La mia vita con la sindrome di Usher mi ricorda
certi fenomeno della natura del mio paese d’origine,
il Cile. Nella regione dove nacqui c’era un
fiume meraviglioso che dopo un violento terre-
moto fu costretto a cercarsi un nuovo percorso
nel paesaggio. A me era successo qualcosa di
analogo. La sindrome di Usher mi impegnava
senza tregua, dovevo trovare un nuovo percorso
di vita. Dopo il terremoto nessuno avrebbe voluto
fermarsi sulla nuova riva di quel fiume.
Anch’io, sulla nuova riva del mio fiume inizialmente
non trovai null’altro che la mia anima duramente
provata. I miei cari, come anch’io, ne
fummo talmente scossi da non essere capaci,
all’inizio, a prendere le vie che si presentavano.
Ma dove c’è acqua la vita si sviluppa e sulla riva
del fiume le piante ricominciarono a insediarsi. La
natura aveva ricreato un equilibrio. Il fenomeno
di natura che avevo visto in Cile mi fu d’esempio,
mi indicò la via della creatività. La volontà di vivere,
sotto la spinta dalla sindrome di Usher, era
il materiale, la sostanza che fece rifiorire le rive
dei miei spazi di vita.
L’handicap ha controllato la mia vita, ma soltanto
fino al giorno in cui riuscii a ricreare un equilibrio.
Grazie per l’attenzione!
2 Comments
Am aflat aceasta pagina, dupa ce am cautat
despre Lhandicap esercita un influsso determinante sulla
mia vita – o magari no? pe Google. Se pare ca informatia dvs e foarte valoroasa,
mai ales ca am mai gasit aici si despre ora, ora exacta,
lucruri interesante si folositoare. Mult succes in continuare!
Grazie di cuore! Laura